Criticare il festival di Sanremo è sempre molto facile quanto incompleto se la critica si ferma solo a ciò che si vede e si sente.
Preferirei integrare la critica a Sanremo con un’analisi disincantata di ciò che nasconde l’evento che, piaccia o non piaccia, ogni anno ci aggiorna sulla condizione in cui versiamo dal punto di vista storico, sociale ed esistenziale.
Per questa edizione, provo a sedermi a cavalcioni sul dito per guardare meglio la luna.
Ascoltando le proposte musicali di Sanremo 2019 sono stato prepotentemente investito da una costante che attraversa tutte le canzoni: l’assenza dell’immaginifico, quel motore della creatività che produce immagini.
È un’assenza estremamente palpabile nei testi, costruiti con parole che sono mattoncini di pareti angolari che delimitano i mondi di dentro, il non-spazio e il non-tempo; architetture letterarie complesse, parole funambole in equilibrio precario su cavi di logiche esistenziali tesi tra pilastri di rime baciate o anche solo accarezzate.
Descrizioni così didascaliche come se la metafora di un racconto non ce la facesse più a soddisfare la comunicazione.
Bombe di parole, rovesciate dal temporale di questo tempo, che allagano i marciapiedi sconnessi delle giornate di tutti, così sconnessi che neanche gli artisti riescono a sorvolare indenni a due centimetri da terra.
Anche loro, sfiniti, si piegano a descrivere le strade dissestate che abbiamo sotto e dentro ai piedi, ad urlargli contro e ad urlarci addosso tutto il disagio per essere diventati più macchine guidate che persone conducenti.
Sanremo 2019 mi dice sostanzialmente dove siamo in questo istante ma non dove andremo tra un’ora, né dove eravamo mezz’ora fa; mi dice che cerchiamo sempre di più l’amore ma non sappiamo, se mai lo avessimo saputo, cosa voglia dire realmente “amare” ed essere amati.
L’assenza dell’immaginifico è inevitabilmente nelle melodie che non riescono a star dietro alle parole, alla loro quantità e alla loro frenesia.
Anche l’eccellente Cristicchi, per la maggior parte del brano, deve attingere a una forma di recitativo pseudo rap pseudo melodico per poter raccontare un testo meraviglioso e pieno zeppo di infinito.
Allora si cerca di risolvere, illusoriamente, con gli arrangiamenti che però devono essere “moderni” a tutti i costi, dove “moderno” e “omologato” sono la medaglia appuntata a un lembo del cappotto di questo tempo in fibra sintetica.
Così, Sanremo 2019 mi dice che viviamo in sedicesimi, quel tatatatata ossessivo del charleston, o chi per esso, che sostiene la maggior parte delle canzoni.
E allora di chi è la colpa se abbiamo perso le melodie che raccontavano le parole che raccontavano le storie?
La colpa è di nessuno perché non c’è reato a essere quel che siamo.
Baglioni? Probabilmente va ringraziato per averci portato, con le sue scelte, davanti allo specchio.