Dal punto di vista di chi, come me, lavora dietro le quinte della produzione musicale, probabilmente i Talent show non sono un problema, ma sono il problema.
Ahimè, non l’unico, ma sicuramente il più dannoso perchè ha geneticamente modificato gli elementi strutturali che sottendono al mondo della musica: ha modificato il modo di fare la musica, di pensare alla musica, di proporre la musica e di ascoltare la musica. in realtà la prima vera vittima del talent è il grande pubblico che dell’artista è il diretto interlocutore.
Il talent show ha trasformato il pubblico percettivo in pubblico giudice.
Mi spiego: i talent, in fin dei conti, non sono altro che provini a scena aperta, travestiti da gara per esigenze televisive, che hanno fatto dello sputtanamento in diretta la loro cifra mettendo in piazza la dimensione privata degli artisti, la loro preparazione tecnica, le loro debolezze, le loro lacrime, le loro ire, quando, al contrario, l’artista dovrebbe essere geloso e riservato rispetto alle proprie vicissitudini intime e private.
Peccato che oggi lo sputtanamento del privato produca tanti soldi, avallato dalla bulimia vouyeristica del pubblico. Questo aprire le quinte ha prodotto due inevitabili conseguenze: facendo leva sulla curiosità gossippara, ha deviato l’attenzione dal fatto musicale alle vicende private e facendo leva sulla tuttologia dilagante finalizzata alla critica gratuita, amplificata dai social media, ha reso giudice chi l’artista lo deve percepire e non analizzare in laboratorio, tantomeno spiare.
Di conseguenza succede quello che accade per il calcio dove tutti diventiamo allenatori: ecco che l’attenzione durante l’ascolto di un cantante è rivolta più all’analisi degli equilibrismi tecnici, magari in attesa dell’inciampo o della crisi di nervi, che non alla ricezione della musica come forma d’arte e di comunicazione.
Ma la musica è arte, non è sport.
Purtroppo, vedo che i cantanti affrontano il palco più con uno spirito da culturisti che da artisti trasformando la musica in sport con tanto di esibizione muscolare, con tanto di squadre, di divise, di tifoserie, all’interno di un’arena che ricorda troppo il colosseo, uno stadio o addirittura un ring.
Tutta questa omologazione, condensata in squadre dopate di competizione, è l’anticristo del fare arte che per definizione è anticonformismo e autenticità. Se il pubblico me lo fai diventare giudice ultras e il cantante diventa pugile, se ne deduce che il talent non può che essere un grande bluff mascherato da opportunità e, come diceva Dalla, “tra la verità che non si dice e le bugie dette male, qui qualcosa non funziona, bisognerebbe controllare”.